Le ipotesi di colpa professionale in caso di nascita di un portatore di anomalie o malformazioni - medleg

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Le ipotesi di colpa professionale in caso di nascita di un portatore di anomalie o malformazioni



LE IPOTESI DI COLPA PROFESSIONALE IN CASO DI NASCITA DI       
UN PORTATORE DI ANOMALIE O MALFORMAZIONI


Prof. Alfonso ZARONE
Primario emerito Ospedale Cardarelli
L. Docente universitario di Medicina legale e delle assicurazioni


La trattazione di questo tema impone di fare preliminarmente  riferimento ai traguardi cronologici che la L. 194/78 fissa con gli art 4, 6 e 7.
          Prima dello scadere dei novanta giorni dello stato di gravidanza la legge prevede (art 4) che la gestante possa interrompere la gestazione se c’è previsione di anomalie o malformazioni del concepito da cui derivi serio pericolo per la salute della madre.
         E’ a tutti noto che di fatto nei primi novanta giorni, con una interpretazione  estremamente…elastica della legge, l’aborto viene attuato  a richiesta della gestante,  senza alcun problema.
        Entro questo primo limite cronologico l’impegno professionale nelle formulazioni del giudizio di sia pur semplice “previsione di anomalie o malformazioni del concepito” può coinvolgere di fatto il medico curante, cosiddetto di famiglia, ed il ginecologo clinico per non aver illustrato alla donna eventuali fattori di rischio, quali l’avvenuta assunzione di farmaci ad azione teratogena; l’esposizione a radiazioni ionizzanti; gli eventuali danni di pertinenza infettivologica (rosolia, etc.); la presenza di malattie genetiche nel gruppo familiare etc. Condizioni che cioè avrebbero comportato, in concreto, la “previsione di anomalie o malformazioni del nascituro”. In quest’ultima eventualità, ove sia stato consultato, il giudizio della mancata previsione potrebbe coinvolgere anche il genetista, che non avesse evidenziato, per imperizia o negligenza, il rischio di una malattie genetica.
          Dopo i novanta giorni l’interruzione della gravidanza, secondo l’art. 6 della L. 194/78, può essere praticata:
a) quando la gravidanza ed il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna (in sostanza un pericolo grave per la vita stessa della gestante);
b) quando “siano accertati processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie e malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”.
          Va peraltro aggiunto che il successivo art. 7 della precitata legge stabilisce che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’art. 6 ed il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto”.
         In sostanza dopo i novanta giorni la possibilità dell’interruzione della gravidanza si scontra con un altro limite cronologico: quello in cui si può presumere l’avvenuto raggiungimento della capacità di vita “autonoma” del feto, dopo del quale l’interruzione della gravidanza può essere attuata solo in presenza di pericolo per la vita della gestante e ad essa deve seguire l’assistenza al neonato.
        Si è cioè giustamente impossibilitati alla soppressione del concepito, anche se affetto da “rilevanti” anomalie.
Questo ulteriore limite cronologico non è fissato rigorosamente dalla L. 194; la Dottrina medico-legale prevalente nel passato lo poneva al compimento  del sesto mese (25 settimane più 5 giorni); oggi invece i Comitati etici dei Centri ove su pratica l’aborto riducono tale limite a quello di 23 settimane e 0 giorni: termine dopo il quale, secondo questo assunto,  si può presumere raggiunta la cosiddetta “vitalità cronologica” cioè la “capacità di vita autonoma” del feto., intesa come possibilità di controllo e di coordinamento autonomo delle funzioni vitali.
       Questi sono dunque i riferimenti essenziali all’assetto normativo vigente.
       La legge dopo i novanta giorni impone dunque di accertare la presenza di rilevanti danni fetali ai fini dell’interruzione della gravidanza ex art 6 punto b).
        Ciò – e la mia lunghissima esperienza  di medico-legale mi consente di affermarlo – per lo più chiama in causa l’operato del ginecologo ecografista, cui si attribuisce la colpa della mancata dimostrazione del rilevante danno fetale.
         Per mia conoscenza diretta e per quanto si desume dalla giurisprudenza gli accadimenti sono quasi sempre gli stessi, in tutte le vertenze:
- presenza di  anomalie alla nascita, non evidenziate dall’ecografista durante la gravidanza;
- affermazione di “colpa” professionale per la mancata diagnosi in tempo utile ai fini dell’interruzione della gravidanza.
         Conseguentemente in ogni vertenza giudiziaria i Consulenti d’Ufficio devono verificare, per consentire al Magistrato di raggiungere una certezza rispettosa della normativa:
        - se la malformazione poteva essere dimostrata all’esame ecografico, con tutta evidenza ed in tutta la gravità poi riscontrata alla nascita, e quindi apparire tale da poter essere definita, tra il quarto e sesto mese compiuto di gestazione, una “rilevante” anomalia fetale;
        - posto che la madre fosse stata resa edotta della presenza delle malformazioni, con l’approssimazione diagnostica che può consentire l’esame ecografico del feto, se è possibile affermare con certezza, a posteriori, che da ciò sarebbe derivato un “grave pericolo” per la salute psico-fisica della gestante.
        Ai fini del giudizio medico-legale si impone dunque la necessità di provare non solo la possibilità di una diagnosi certa della malformazione tra il quarto mese e quello in cui si può presumere l’avvenuto raggiungimento della capacità di vita autonoma del feto, ma anche quella di fornire entro quest’arco di tempo la precisa definizione dell’entità dell’anomalia stessa e degli stati invalidanti insuscettibili  di miglioramenti con eventuali trattamenti medico-chirurgici .
         È invece certo che mentre alcune anomalie sono facilmente evidenziabili, altre sono di dimostrazione estremamente difficile e soprattutto approssimativa ai fini della definizione dell’entità del danno alla persona del nascituro, che pur potrà apparire assai grave ed invalidante alla nascita.
         Ma per invocare la liceità dell’eventuale richiesta della madre di interruzione della gravidanza dopo i novanta giorni e prima del raggiungimento della capacità di vita autonoma del feto, occorre anche provare, a posteriori e con certezza, che, ove la gestante fosse stata resa edotta della presenza della malformazione, ciò avrebbe sicuramente determinato l’insorgenza di un “grave pericolo” per la sua salute.
         Va detto peraltro che è ben difficile dimostrare, ex post e con certezza, il “grave pericolo” per la salute materna che sarebbe insorto per l’avvenuto riconoscimento di anomalie fetali, anche ammesso che le stesse potessero essere definite rilevanti e precisamente definibili nella loro entità invalidante con l’esame ecografico.
         Se si seguisse la via di presumere, senza provarlo, il grave pericolo per la salute materna in ogni caso, si finirebbe con l’identificare la liceità della provocazione dell’aborto con la sola dimostrazione del rilevante danno fetale e quindi con l’affermare la possibilità dell’interruzione della gravidanza a fine esclusivamente eugenetico: il che non è invece assolutamente previsto ed ammesso dalla L. 194/78.
           Ciò che legittima l’interruzione della gravidanza non è infatti il danno fetale in se ma le conseguenze che esso induce e che hanno valore ai fini dell’interruzione della gravidanza, dopo i novanta giorni, se e quando dal rilevante danno accertato derivi “grave pericolo” per la salute materna.
         Questa interpretazione dell’assetto normativo trova autorevole conferma in numerose e concordi  sentenze della Suprema Corte, dalle quali si evince che il medico può essere chiamato a rispondere dei danni  presenti nel concepito, solo se essi sono legati da nesso di causalità con una condotta censurabile, commissiva od omissiva, da lui attuata!
        Vero è invece che i coinvolgimenti dei medici in ambito penale e civile si sono moltiplicati con progressione geometrica, in caso di nascita di portatori di anomalie o patologie indiagnosticate nel corso della gravidanza: e l’occasione dalla quale sorgono i contenziosi medico-legali è quasi sempre  rappresentata dalla mancata o imprecisa diagnosi ecografica di anomalia fetale.
            Nel merito va peraltro sottolineato che si è creata una pericolosa differenza tra quanto appare autorevolmente consacrato dalla Letteratura scientifica internazionale e le tesi disinvolte di alcuni CTU, spesso non all’altezza del compito estremamente complesso loro affidato.
            Un’ultima considerazione si propone, che non vuole essere una protesta ma solo un segnale di allarme diretto al fine di contenere un fenomeno che sta assumendo proporzioni allarmanti: quello del ricorso all’Autorità giudiziaria anche nei casi più assurdi.
          Ricorso che viene a volta strumentalizzato e diretto al fine di gettare nel panico il Medico che, specie quando è coinvolto in ambito penale,  sollecita le Compagnie assicuratrici a corrispondere anche gli indennizzi non dovuti, pur di sottrarsi all’onta di una condanna, ingiusta ma pur sempre possibile.
           Sollecitazione che spesso viene accolta dalla Compagnia, che a questo si sente spinta al fine di attuare una politica aziendale accattivante e di richiamo: si crea così la premessa di un ulteriore incoraggiamento ai ricorsi immotivati, realizzandosi la significativa immagine…del cane che si morde la coda!



 
 
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